“Nigeria, punto e a capo”: le testimonianze delle persone che vivono in Italia

razzismo nigeriani

Il 21 marzo è la Giornata Internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale.

Arriva a conclusione il progetto che ha portato l’associazione Connect a visitare il Sud, Centro e Nord Italia, per raccogliere e divulgare le storie di immigrazione delle realtà nigeriane meno conosciute del paese.

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L’iniziativa “Nigeria, punto e a capo” ha raccolto circa 30 testimonianze di persone che hanno raccontato la propria storia di vita ed integrazione nel nostro Paese.

Il materiale è stato pubblicato in parte sulla pagina Facebook e Instagram di Connect.

Seguono alcune testimonianze.

Nonostante le discriminazioni, noi nigeriani amiamo la vita

“Mi chiamo Korie Chidimma, ma tutti mi chiamano Emma, lavoro come infermiera a Roma.

Una buona notizia: quest’anno ho vinto il concorso per entrare in una equipe specializzata in trapianti ed emodialisi all’ospedale San Camillo Forlanini di Roma, città che amo.

Sono l’unica infermiera nigeriana che ricopre questo ruolo in tutto l’ospedale.

Mi ha dato i brividi firmare il contratto a tempo indeterminato davanti all’impiegata della struttura sanitaria. Una signora molto gentile, che mi ha accolto con grande rispetto.

E’ stato un lungo percorso: oggi ricordo con un sorriso quando conseguivo la laurea in infermieristica all’università di Tor Vergata. Non volevo passare i test con dei voti bassi, per questo ho rifiutato più di un esame.

Korie Chidimma, detta Emma, Infermiera all’ospedale San Camillo Forlanini di Roma

Devo ammettere che durante il percorso della mia vita ho vissuto molte situazioni in cui mi sono sentita discriminata. 

Ad esempio, mentre lavoravo al Policlinico Umberto I di Roma, negli ultimi anni ricoprivo il ruolo di responsabile nel reparto Covid-19, avevo tutti pazienti italiani.

Al tempo è successo che alcuni pazienti dicevano che volevano un altro infermiere, che non volevano me perché sono nera.

Quando capivano che ero la responsabile alcuni pazienti si scusavano.

Un’altra brutta esperienza di discriminazione l’ho vissuta nel 2019, quando stavo andando ad accompagnare mio marito all’aeroporto.

I carabinieri ci hanno fermati per controllare i documenti e mio marito si è accorto di aver dimenticato la patente a casa.

Certo, abbiamo fatto un errore, volevamo andarla a prendere, non eravamo lontani. Sarei potuta andare perché avevo con me la mia patente.

Invece i carabinieri non ce l’hanno permesso, ci hanno tenuti ad attendere tre ore e mezzo e alla fine hanno preso tutti i nostri documenti.

Dopo pochi giorni a casa ci è arrivata una multa di 15mila euro. La nostra macchina è stata tenuta in fermo sei mesi.

Ancora sto pagando l’avvocato per risolvere questa situazione, ma abbiamo vinto la causa.

Nonostante le brutte esperienze che sono capitate lungo il percorso c’è da dire una cosa. Noi nigeriani cerchiamo sempre di essere sorridenti e di rimanere felici anche se ci sono problemi, anche nella povertà.

In Nigeria ci sono tantissime persone che non possono consumare tutti e tre i pasti, non possono mangiare per colazione, pranzo e cena, ma tutti nel nostro paese sanno che vivere la vita significa trovare la forza per essere felici, anche se possono succedere tante cose negative.

Noi nigeriani amiamo la vita!”

Korie Chidimma, Roma – Marzo 2022

 

Dei razzisti hanno bruciato la mia casa

“Quella notte mi trovavo a casa, erano le due, ero sveglio, lavoravo al computer, ho sentito odore di bruciato provenire da fuori.
Vado a vedere che cosa brucia: c’era del fumo che entrava dalla porta. Apro la porta: vedo il fuoco.

Appoggiato alla mia porta di casa c’era un motorino che stava bruciando .
Per liberare la porta e per chiedere aiuto ho respirato il fumo e sono svenuto.

Mi ha soccorso la mia famiglia che era nell’altra stanza. Hanno chiamato l’ambulanza, e quando è arrivata mi ha portato in ospedale.

Tutti gli abitanti del quartiere quella notte sono usciti per strada per stare vicino a me e alla mia famiglia. Per fortuna non si è fatto male nessuno.

I giornali? Non ricordo se hanno parlato di quello che è successo.

Il giorno dopo mia madre ha provato a esporre denuncia contro ignoti, nonostante questo il colpevole non è stato trovato.

Lei voleva cambiare casa, ma siamo rimasti a vivere nello stesso posto ed io ormai da tre anni sto cercando di mettere una pietra sopra tutta la vicenda.

Ancora oggi mi chiedo: cosa abbiamo fatto per ricevere tutto questo odio nei nostri confronti?

Nel nostro quartiere ci sono tanti stranieri, ma perché proprio noi siamo stati presi di mira? Ancora oggi non ho trovato una risposta.

Fateci caso, basta che un africano compia un’azione negativa, l’azione sembra venire amplificata dai giornali. Anche tanti uomini bianchi commettono crimini, ma se lo fa una persona nera, un nigeriano, i giornali mettono a fuoco che una persona nera lo ha fatto.

È una cosa che noto, perciò cerco di stare sempre sulle mie, cerco sempre di fare meno casino, perché sei sempre tu, ragazzo nero, che sei preso di mira.

I miei piani per il futuro?

Fino qualche anno fa volevo fare il calciatore, non avevo un sogno di riserva. Gli allenatori dicevano che giocavo bene, ero bravo e mi stavo avviando la carriera professionale, ma dopo quello che è successo sono fermo.

È stata una decisione presa da me. Purtroppo non ho avuto la possibilità di continuare la carriera sportiva.

Non è facile sostenere i cori razzisti che esplodevano quando facevo goal. Ci vuole la figura di un padre che ti segua durante le partite per sostenerti in certe situazioni.

No, non ho il papà, mia madre fa la venditrice ambulante. A parte il calcio?
Non ho mai avuto un sogno di riserva”.

Marco* , Napoli – Agosto 2021

*nome di fantasia

I miei figli sono nati qui, ma si sentono stranieri

“Mi chiamo Rowland, ho 52 anni. Sono padre di quattro figli.

Rowland A.Ndukuba, presidente Nunai

Amo molto l’Italia e gli italiani, ho vissuto più in questo Paese che dove sono nato e quindi mi sento italiano a tutti gli effetti.I miei figli sono tutti nati qui, hanno studiato qui.

Hanno fatto le elementari, le medie, le superiori, anche l’università in Italia.

Purtroppo in questo Paese si sentono stranieri a causa della pelle scura. Questo è accaduto anche perché uno di loro ha avuto una terribile esperienza.

E’ stato fermato dai carabinieri quando era in auto con degli amici gli agenti gli hanno chiesto il permesso di soggiorno.
Lui ha dato i documenti italiani, e il carabiniere gli ha detto che non andavano bene, che serviva il permesso di soggiorno.
Mio figlio è italiano, e si è spaventato.

Un altro carabiniere è sceso dalla macchina, ha capito la situazione e lo ha lasciato andare insieme ai suoi amici.
Mio figlio quando è tornato a casa era molto triste. Quando gli ho chiesto cosa è successo mi ha detto: “Papà, dobbiamo trovare un posto dove andare perché qui in Italia mi sento straniero. Mi fermano e chiedono da dove vengo. Mi vergogno a dire che sono italiano”.

Gli ho risposto: “Sei a tutti gli effetti italiano”.
In seguito tutti i miei figli hanno deciso di andare all’estero.

Il più grande ha 26 anni, si è laureato in ingegneria e ha completato un master, il secondo si è laureato in economia e ha completato il master, la terza è laureata in farmacia e sta facendo un master, il più piccolo studia medicina.

Sono cervelli in fuga. 
Spero che l’attività del governo italiano riesca ad includere i gruppi delle popolazioni di altri paesi, perché noi ci crediamo nello Stato Italiano e nessuno deve chiederci ogni volta di dove siamo.

Questo terribile episodio nulla toglie all’amore che provo per l’Italia e gli italiani.

Però se dovessi dare un consiglio vorrei che il governo si sforzasse molto di più per includerci. I nostri figli che sono nati qui, parlano bene italiano, sono una risorsa enorme per la società italiana.

Rowland A.Ndukuba, Bologna – Dicembre 2021

Come frenare l’esodo di massa?

“Mi piacerebbe comprendere il lavoro del giornalista e offrire il mio contributo.

Sono il dottor Kamalu O.C.Raymod, dottorato in Filosofia della Scienza e specializzato in epistemologia.

Mi farebbe piacere sapere che il paese che io amo, cioè l’Italia, sta aiutando a gestire l’esodo di massa di immigrati che vediamo ogni giorno.

Kamalu O.C.Raymod, Epistemologo, Roma

L’esodo di massa è solo l’effetto, trovare la causa che costringe i nigeriani a scappare dal proprio paese via mare e via deserto morendo – come sapete purtroppo ne muoiono tanti – permetterà di trovare una soluzione.

Come sapete i problemi non si risolvono focalizzandosi sull’effetto, ma agendo sulla causa.

L’Italia, che è un grande paese, se riesce ad approfondire l’origine del problema potrà riuscire a risolverlo”.

Kamalu O.C.Raymod, Roma – Agosto 2021

Mio padre è stato ucciso dai pastori nomadi

“Mi chiamo Fabio*, mio padre è stato ucciso nel 2015 da gruppi di pastori in transumanza che circolano in Nigeria alla ricerca di terre per far pascolare gli animali.

L’ho scoperto dopo che sono tornato dall’Inghilterra, dove studiavo per il master di “Global Management”.
Quando sono tornato a casa in Nigeria perché volevo prendermi una pausa dallo studio e vedere la mia famiglia, ho scoperto che mio padre era morto.

Oggi sono qui per tutti i problemi che sono seguiti al terribile evento. Mi trovo impossibilitato a camminare, deambulo con le stampelle.
Mio padre era un agricoltore, è morto perché voleva difendere la sua terra dai pastori semi-nomadi in cerca di terre dove far pascolare il gregge.
(vedi “ Amnesty: scontri tra contadini e pastori uccidono 3.600 persone in Nigeria).

Da lì è nato il mio attivismo politico. Chiedevo ai politici al governo: “Perché mio padre è morto?” Con il tempo ero sempre più attivo in politica. Un giorno volevo ufficializzare la formazione un gruppo politico che avevo creato per affrontare il problema, ma la commissione del governo non lo ha permesso.

Non ho potuto fare più nulla. Né continuare il mio percorso di studi, né entrare in politica.
In Nigeria non puoi difendere i tuoi diritti e non c’è nessuno che li difenda. La mia famiglia era spaventata.

Per non coinvolgerla in quello che mi stava accadendo ho smesso di parlarci.

Vorrei stare vicino a mia madre che è anziana e non sta bene, ma ho paura delle possibili rappresaglie da parte del governo. Per questo spero che questo paese mi protegga e mi permetta di realizzare il mio sogno di concludere i miei studi: vorrei riuscire a fare il dottorato in Inghilterra”.

Fabio*, Roma – Agosto 2021

*nome di fantasia

In Nigeria per l’errore di pochi non si ha diritto a parlare

“Ciao, mi chiamo Loiss, sono operatrice in un centro d’accoglienza, ho 55 anni e vivo a Roma. Sono trent’anni che abito in Italia, sono arrivata che ero una ragazzina, mi sono sposata ed ho fatto quattro figli. La prima si chiama Judith, la seconda si chiama Vera, il terzo si chiama Kevin ed il quarto si chiama Ugomma.

Loiss, Musicista, Roma

Voglio farvi sapere che la Nigeria è un paese bellissimo, ma per l’errore di una o due persone si è arrivati a non avere più diritto a parlare.

La Nigeria è un paese grande, ha oltre 100milioni di abitanti, è uno dei paesi più popolosi dell’Africa.

Quando sono arrivata in Italia volevo proseguire gli studi, mi sono iscritta all’università a San Giovanni, ma la lingua era troppo difficile e non sono riuscita a continuare.

Anche se io non sono riuscita sono comunque soddisfatta perché da poco mia figlia si è laureata in infermieristica.

Oggi sono anche nonna di tre bellissimi nipotini e in Italia ho vissuto la maggior parte della mia vita. Qui in Italia stiamo benissimo e conosco questo paese meglio della Nigeria, questa è la mia prima casa”.

Loiss, Roma – Agosto 2021

Sono arrivato dopo la guerra in Biafra

“Mi chiamo James, ho 65 anni, sono venuto in Italia il 26 ottobre del 1977. Mi ricordo bene questa data perché era da poco finita la guerra tra Nigeria e Biafra.
Ho lottato dalla parte secessionista, la parte del Biafra, ma siamo stati sconfitti.
Una volta finita la guerra le organizzazioni umanitarie stavano cercando giovani da poter mandare all’estero per imparare un mestiere.

L’idea era quella di partire per poi tornare in Nigeria. Quindi il mio iter è cominciato a Roma.

Ho iniziato a studiare all’Università degli Stranieri di Perugia, ma è mancato il supporto del governo nigeriano per finanziarmi gli studi. Al tempo in Nigeria c’è stato un colpo di stato.
In Italia mi sono dovuto arrangiare e mi sono detto che avrei dovuto accettare qualsiasi lavoro legale. Ho continuato a studiare e qualche anno dopo sono riuscito a laurearmi in farmacia.

Ho iniziato a lavorare come assistente farmacista, ma potevano farmi solo un contratto da magazziniere perché non era riconosciuto il mio titolo di studio.
Fino a quando non mi sono stancato della situazione, ho deciso di andare a vendere moquette.
Nel frattempo ho conosciuto una ragazza a Pavia, che poi è diventata mia moglie.

Ho avuto due figli: un maschio e una femmina che oggi hanno 27 e 32 anni. Il primo è specializzato con il dottorato in chimica, il secondo ha finito il terzo anno di geologia.
Per un periodo ho lavorato come informatore medico scientifico perché non mi potevo iscrivere all’Ordine dei Farmacisti.

Quando è stata approvata la legge Martelli ho avuto la possibilità di cambiare il permesso di studio in permesso di lavoro e ho potuto finalmente iscrivermi all’Ordine dei Farmacisti.

L’integrazione? E’ stata molto dura, ma avendo subito la guerra civile, avevo già visto il peggio.
E’ durata dal 1967 al gennaio 1970, è stata chiamata di secessione da parte del sud est della Nigeria che si è proclamato Biafra.
I fratelli di mio padre sono morti durante la guerra, sono stati uccisi dalle bombe che cadevano ovunque, è stata distrutta la nostra casa, siamo scappati, eravamo rifugiati in diversi posti, con decimazione di bambini.

Sono morte tre milioni di persone durante il conflitto.
Le organizzazioni umanitarie, la World Wide Fund Organization, le organizzazioni cristiane e tutte le altre ci hanno dato una mano.
I bambini morivano per malnutrizione a causa della tumefazione della pancia, delle gambe.

I cosiddetti “kwashiorkor ”, non so se ne avete mai sentito parlare…”

James Onuigbo, Milano – Dicembre 2021

Non subisco più le violenze della polizia nigeriana

“Mi chiamo Clement David, sono nigeriano, da quando sono arrivato in Italia sono sempre stato a Foggia, di rado torno in Nigeria.

Al momento lavoro come badante, per un periodo ho lavorato in una fabbrica d’imbottigliamento.

Nell’ultimo periodo sono andato a scuola alla Croce Rossa Italiana per fare volontariato.E’ stata una bella esperienza perché mi è piaciuto aiutare le persone.

Negli ultimi anni, a causa del Covid-19, non mi è stato possibile svolgere il lavoro di badante.

Posso dire che in Italia sto bene, sono qui da otto anni, ho visitato molti paesi del mondo: ho vissuto in America ed in Egitto, anche in Libano, e sono anche andato a scuola in India.

Quando sono arrivato qui finalmente ho potuto stare tranquillo, ho potuto studiare. Ho delle opportunità di studio che in altri luoghi non ho potuto avere, perché alcuni corsi che ho seguito sono gratuiti.
Vivere in Nigeria invece è pericoloso perché alcuni poliziotti, non tutti, derubano i cittadini quando li fermano durante i controlli per la strada.

È abbastanza comune che ti fermino e ti portino via i soldi, l’orologio, le scarpe, ti possono mettere anche in carcere se ti opponi.
In Nigeria c’è paura del futuro, della disoccupazione, della polizia, e tutto questo causa dei problemi psicologici ai cittadini.
La polizia avrebbe la responsabilità di mantenere l’ordine, invece perpetra violenza.

In Italia e in altri paesi negli ultimi anni ci sono state proteste contro la polizia.

In Nigeria i poliziotti durante quelle proteste hanno sparato sulla folla”.

Clement David, Foggia – Agosto 2021

Come in Nigeria, anche in Italia

“In Italia mi chiamano Benedetto. Lavoro come video-maker a Roma, ma vivo a Viterbo. Sono di nazionalità nigeriana e nel mio paese ho studiato relazioni internazionali, sono arrivato qui in aereo vent’anni fa per proseguire gli studi.

Dopo aver studiato in Italia ho deciso di rimanere in questo paese.
Che ne penso di ciò che si dice di noi nigeriani?
Come in Italia succede che gli italiani non siano tutti persone per bene, anche in Nigeria è la stessa cosa, la regola vale per tutto il mondo”.

Benì-Brain Ndukukyba, presidente dell’associazione NIG.Community Roma, Lazio – Agosto 2021

Raccogliamo viveri e li distribuiamo ai poveri

“Sono Lauretta Osuamadi, sono in Italia da più di trent’anni, nella chiesa di Sant’Ambrogio della Massima, qui a Roma, accogliamo tutti. Raccogliamo viveri che distribuiamo a tutti quelli che hanno bisogno e tutti viviamo per Cristo. Quindi chi ha voglia di venire a trovarci siamo qui, preghiamo Gesù
che è morto per la nostra salvezza”.

Lauretta Osuamadi, Roma – Agosto 2021

Quando qualcuno è in difficoltà mi chiamano

A Senigallia mi chiamano “Mamma Africa”, ma il mio nome vero è Catherine. Ho lavorato come insegnante nelle scuole medie superiori, fino a che nel 1994 sono andata in pensione. Ho 82 anni,

Sapete che da bambina ho partecipato alla seconda guerra mondiale?

Mio papà era soldato per gli inglesi e siccome a quell’epoca dicevano che tutti dovevano sostenere i soldati africani arruolati dall’esercito inglese, da bambina raccoglievo le noci che venivano inviate all’azienda Palmolive per produrre il sapone. Il sapone veniva inviato agli eserciti stanziati in Asia per combattere contro i giapponesi.

Mio marito si chiama Angelo Caroli, è un medico missionario che ha lavorato durante diversi conflitti in Africa per oltre trent’anni. Il 7 aprile compierà 94 anni. Ci siamo conosciuti nel 1962 mentre era medico in Biafra per l’organizzazione Cuamm.

Al tempo insegnavo in una scuola media inferiore. All’interno della struttura c’era l’ospedale dove lui lavorava. Ci ha presentato mia cugina.

Negli anni successivi lui ha continuato le missioni, io l’ho seguito in Togo dove lavorava per una missione del Fate Bene Fratelli. In Togo sono nati i nostri tre figli.

Sono molto attaccata alla mia Africa dove ho vissuto fino a 26 anni, ed ho chiesto alle autorità il permesso di portare alcuni manufatti.

Con gli oggetti che ho raccolto, con le autorizzazioni delle istituzioni, abbiamo realizzato il “Mini Bantu African Museum un vero e proprio museo africano situato nel mezzo delle colline di Senigallia. Un edificio esemplare, costruito come si fa nei villaggi Bantu, con materiali ecologici come la terra e la paglia.  Nel museo arrivano persone che studiano l’Africa, studenti universitari e professori. L’abbiamo inaugurato nel 2012.

Quando sono arrivata in Italia, nel 1965, non c’erano altri africani neri nella regione Marche, io ero l’unica. Le persone quando mi vedevano vestita all’africana con il fazzoletto in testa, nera di pelle, non riuscivano a nascondere lo stupore. Qualcuno commentava ad alta voce e mi diceva: “E’ una regina africana?” oppure “Posso toccare?”

Secondo me questi erano commenti sani, al tempo tanti marchigiani non sapevano dov’era l’Africa. Qualcuno mi chiedeva con curiosità se ero siciliana, io rispondevo: “Vengo da un po’ più giù!”.

Gli abitanti della regione Marche sono riservati, ma se ti avvicini sanno aprirsi. In questa terra sto benissimo.

Quando una persona straniera è in difficoltà la indirizzano a “Mamma Africa”.

La mandano da me per occuparmene. Succede anche quando qualcuno non parla italiano, mi chiamano per tradurre.

Ma quello che faccio non è solo una traduzione, cerco di far capire la cultura nigeriana, come ragioniamo e pensiamo, come funziona nel nostro paese, la vita, il lavoro e la cultura.

Le famiglie africane e straniere mi chiedono un aiuto per il contratto di lavoro, il contratto immobiliare, e i diritti. Cerco di aiutarle per tutto. La nostra organizzazione si chiama Associazione Culturale Arancia Donna Subsahariana e qui ci conoscono tutti.

Aiutiamo gli stranieri e ci assicuriamo che rispettino le regole del contratto d’affitto, che siano loro per primi a conoscere e rispettare le regole in Italia.

A chi arriva chiedo informazioni sul perché è arrivato, cerco di far capire che possono avere fiducia in me. Le persone mi parlano e spiegano onestamente che cosa le ha portate a raggiungere l’Europa, mi spiegano perché si sono avventurate in un viaggio di cui non conoscono esito.

Durante il periodo legato all’epidemia di Covid-19 abbiamo continuato ad aiutare le persone che cercavano lavoro durante il lockdown. In molti casi siamo riusciti a sistemarle trovando un’occupazione e una casa.

Agli immigrati quando li incontro spiego qual è il comportamento giusto da tenere per rispettare il luogo dove sono arrivati, per rispettare il luogo dove iniziano una nuova vita, per chiedere di essere rispettati.

Catherine Iheme, Senigallia – Agosto 2021

Siamo tutti esseri umani

“Mi chiamo Grace, sono operatrice socio-sanitaria, vivo ad Ancona.
Sono arrivata tanti anni fa in aereo con mio padre. In Nigeria è rimasta la mia famiglia, sono andata via dal mio paese perché lì era diffcile trovare lavoro, perché le persone vivono nella miseria.

Ho quattro fratelli e due sorelle, vivono all’estero. Conosco molti italiani in Italia. Il mio lavoro mi piace tantissimo, mi piace farlo anche se non è facile. È pieno di pazienti anziani a cui non piace chi è di colore. Ogni volta che ti mandano da loro, tu gli vai incontro e quando ti vedono sono un po’ arrabbiati.

Ci sono anche altre persone che ti adorano.
In Italia mi trovo bene, siamo tutti esseri umani, ci sono le persone brave e quelle non brave, tra gli italiani come succede con i nigeriani.
A proposito dell’integrazione penso che se non conosci qualcuno non puoi giudicarlo, rispetto a ciò che dicono i giornalisti dei nigeriani loro pensano che i nigeriani siano cattivi, ma invece non è così. Molte persone sono brave”.
Grace Okhiaro, Ancona – Agosto 2021

In Italia ho avuto tante difficoltà

“Mi chiamo Karol, sono venuta in Italia nel 1990. Quando sono arrivata qui ho iniziato a lavorare come badante. Per un periodo ho lavorato come sarta, poi sono andata a lavorare con gli anziani, poi ho preso il diploma di operatore sanitario e sono andata a lavorare in cooperativa, ho lavorato lì per quindici anni.

Oggi sono vedova, mio marito è morto, ho tre figli, di cui Kristofer che è nato qui, ha 22 anni.Mio figlio è brillante, ha finito le scuole superiori, ma qualche tempo dopo ha avuto un tumore alla testa.

Grazie ad alcune persone in Italia siamo riusciti a curarlo, alcuni hanno pagato l’afftto per me quando non potevo lavorare.La cooperativa per cui ho lavorato non mi ha pagato il trattamento di
fine rapporto.

In Italia ho avuto tante difficoltà”.

Karol, Roma – Agosto 2021

Quando sei a Roma devi fare il romano

“Mi chiamo Mariagoretti Ndidi Ukachi, sono venuta in Italia per motivi di studio, mi sono laureata in Italia in psicopedagogia e comunicazione sociale, ho la specializzazione didattica in pedagogia familiare, ho fatto il dottorato in relazioni internazionali.

La mia esperienza di lavoro è stata nell’insegnamento in un asilo nido, dopo ho insegnato nelle scuole medie, ma lì c’è stato un problema di discriminazione per il mio colore di pelle.
Adesso lavoro in procura come mediatrice e traduttrice, faccio parte della commissione per coloro che richiedono l’asilo politico e faccio parte dell’anti-tratta.
Mi occupo delle persone che arrivano qui per avere una vita migliore e invece si trovano sui marciapiedi a lavorare nella prostituzione.

Collaboro anche con il tribunale civile perché alcune persone non si esprimono bene ed io le aiuto. Mio figlio sta studiando in Nigeria, io sono del Biafra.
Cosa facevo in Nigeria? Dopo la scuola secondaria ho fatto l’insegnante per quattro anni. Per un periodo lavoravo nel ministero dell’educazione, partecipavo ad un programma televisivo: il mio lavoro era scrivere i quiz.
A proposito della cultura italiana, quando incontro i nigeriani cerco di spiegare loro come inserirsi bene in Italia e quali regole adottare nel proprio stile di vita per stare bene qui.

Gli spiego che va rispettato il proverbio inglese che dice: “Quando sei a Roma devi fare il romano”.

Mariagoretti Ndidi Ukachi, Roma – Agosto 2021

“Migrano qui per aiutare i parenti nel loro paese: manca il welfare”

Tijani Amanze, Macerata

“Mi occupo di minori non accompagnati in residenza a Macerata. Sono in questo paese da nove anni. Quando ero in Nigeria lavoravo per un’azienda di telecomunicazioni, perché sono laureato in micro-ingegneria.
Le cose per me non sono andate più bene quando nel 2009 c’è stata una crisi economica intensa che ha toccato la parte della Nigeria del nord dove abitavo. La crisi è legata al gruppo terroristico di Boko Haram.
Ho perso il lavoro, ho viaggiato in molte parti per trovarne un altro. Un giorno ho perso mio padre e la situazione è peggiorata ancora. Dovevo sostenere economicamente i miei fratelli e le mie sorelle che andavano a scuola. Ho iniziato a fare ogni genere di lavoro per supportare mia madre e la mia famiglia.
Dopo qualche anno dalla perdita di mio padre ho pensato di venire in Italia, sono andato in ambasciata a prendere il visto, sono arrivato qua ed iniziato a studiare la lingua.
Com’è l’integrazione? Sempre difficile.
Ci sono tante storie da raccontare dei giovani che arrivano qui, la maggior parte delle storie sono simili. Chiunque arrivi qui in Italia all’età di quattordici, quindici, sedici anni sta cercando di aiutare la propria famiglia che è in povertà in Nigeria.
Le madri, anche quando ormai sono anziane, vanno a lavorare in fattoria. I giovani non vogliono che le loro madri lavorino e partono.
Non c’è il welfare in Nigeria, non c’è un sistema che supporta i fragili e gli anziani. La pensione non arriva mai, il governo dice che arriva, ma non viene mai elargita. All’ospedale ti curano solo se paghi. Alcune persone perdono la testa, impazziscono, perché soffrono.
Anche se la Nigeria è ricca, piena di risorse naturali, le risorse non vengono utilizzate come dovrebbero: i politici sono corrotti e utilizzano tutti i soldi per sé e per la propria famiglia. Certi giorni arrivi al limite e devi andare necessariamente a fare lavori alla giornata a lavorare come agricoltore, altrimenti non riesci a sopravvivere, a mangiare.
A proposito del razzismo capitano continuamente casi di discriminazione. I minori non accompagnati quando sono qua me li raccontano. A me non è mai capitato, so che dipende anche da come ti comporti. In Italia ho avuto la fortuna di avere la moglie di mio zio che mi ha insegnato tante cose, e colgo l’occasione per dire grazie a tutti gli italiani che mi sono stati vicini in questi anni.
Agli altri direi che prima di giudicare dovrebbero conoscere.

Tijani Amanze, Macerata – Agosto 2021

“Non assumevano persone di colore, ma a me è andata bene”

Newtin, impiegata in ferramenta

“Mi chiamo Newtin, sono in Italia da più di vent’anni. Sono sposata e ho tre figli: due maschi e una femmina. Il primo si chiama Luiss, nato a Londra, gli altri due, Cassaty e Claudia sono nati a Roma. Oggi lavoro in una ferramenta a Roma.
Quando ho iniziato a lavorare non volevano assumere persone straniere nè di colore. Ho detto alla signora che ero molto brava, che potevano mettermi alla prova e se non andavo bene, avrei avuto pazienza e avrebbero trovato qualcun altro. Sono andata bene e mi hanno presa per occuparmi delle faccende domestiche. Un giorno avevano bisogno di qualcuno che lavorasse nella ferramenta di famiglia. Mi hanno chiesto di dare una mano in negozio, e attendere i clienti, avvisarli nel caso entrasse qualcuno. Intanto la signora per cui lavoravo preparava le chiavi per i clienti ed io la osservavo attentamente, volevo imparare. A un certo punto si è dovuta assentare per alcune commissioni. Mentre era via ho provato a fare una delle chiavi e ci sono riuscita.

Lei è tornata e mi ha detto: “Non toccare nulla!” Le ho risposto che avevo già lavorato una chiave e che c’ero riuscita: da quel giorno mi hanno assunta anche in ferramenta.
Prima di avere i bambini lavoravo dalla mattina alla sera e partivo dalla periferia di Roma cambiando due bus. Mi svegliavo alle 4 e tornavo a casa verso le ventidue. Sono stata fortunata, non ho mai incontrato qualcuno di cattivo”.

Newtin, Roma – Agosto 2021